“L’altra verità” è il libro dove la poetessa racconta la sua e l’altrui sofferenza durante i suoi anni in manicomio. Il libro descrive perfettamente uno spaccato di un’Italia nemmeno poi così lontana.
“L’altra verità” è un libro di Alda Merini del 1986 dove la scrittrice milanese racconta i suoi dieci anni in manicomio.
Quest’opera, la prima in prosa di Alda Merini, è redatta sotto forma di diario. Un diario particolare però, che non presta attenzione alla consequenzialità temporale bensì si sofferma sul flusso di emozioni che guida il suo sentire. Le pagine sono state un continuo schiaffo alla mia sensibilità, così crude nella loro durezza, così dettagliate nella loro violenza. Il manicomio è un luogo che la Merini descrive come una latrina a cielo aperto, dove i pazienti orinavano e defecavano in ogni dove.
Rappresentato come una triste piaga di un’Italia che, si fa fatica a crederci, ma non è così temporalmente lontana dai nostri giorni. E allora pagina dopo pagina, violenza dopo violenza, ti chiedi come fosse possibile che nessuno si accorgesse dell’inadeguatezza di questi posti.
La Merini lo ribadisce più volte, il manicomio non era un luogo correzionale, bensì un luogo di alienazione dove i matti erano destinati a morire senza trovare alcun tipo di salvezza, e quand’anche riuscivano ad uscire, dovevano fare i conti con una società che li marchiava a fuoco respingendoli con fastidio malcelato.
“È difficile addentrarsi nei meandri della propria mente per rientrare nella socialità”.
L’inizio di un incubo
“Quando venni ricoverata per la prima volta in manicomio ero poco più che una bambina, avevo sì due figlie e qualche esperienza alle spalle, ma il mio animo era rimasto semplice, pulito sempre in attesa che qualcosa di bello si configurasse al mio orizzonte”.
Alda Merini viene ricoverata in manicomio nel 1964, a trentatre anni. Prima, per sua stessa ammissione, non aveva mai sentito parlare di queste strutture. Il suo impatto fu devastante, tanto che, racconta la poetessa, poco dopo essere entrata, svenne. Lì, nessuno prestava attenzione all’umanità delle persone, prima si era malati di mente e solo dopo umani. Eppure la Merini racconta la profonda sensibilità e sofferenza che si celava dietro ogni suo compagno di avventura. Sofferenza che spesso veniva esternata in modo aggressivo e che per questo veniva arginata con massicce dosi di medicinali ed elettroshock.
Non si era interessati alla cura del paziente, quanto più al suo contenimento. E, lontani dalla famiglia e da ogni comprensione da parte di un mondo esterno che li ha ripudiati i pazzi si sentono soli.
“Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio. In quella spietata repulsione da parte di tutto si introducono i serpenti della tua fantasia, i morsi del dolore fisico, l’acquiescenza di un pagliericcio in cui sbava l’altra malata vicina, che sta più in su. Una solitudine da dimenticati, da colpevoli”.
Alda Merini racconta la profonda ingiustizia di un luogo di detenzione per condannati che non dovevano espiare nessuna pena se non quella di aver sofferto e di pagarne ancora il prezzo, senza riuscire a trovare una valvola di sfogo che la società ritenesse consona.
Questo tema è stato ovviamente trattato da più persone, e di seguito lascio un link di un video dove parlo del capitolo che il grande giornalista Giorgio Bocca dedica, nel suo libro del 1963 “Alla scoperta dell’Italia” ai manicomi.
https://fabiomartinenghi.com/2019/03/01/giorgio-bocca-la-scoperta-dellitalia/
Perché addentrandosi nei meccanismi dell’epoca si può rimanere sconvolti dalla facilità e totale discrezionalità con la quale si potesse essere chiusi in queste prigioni. Bastava un’insonnia che perdurava troppo, una arrabbiatura troppo sopra le righe e ti potevano spalancare le porte del non ritorno del manicomio. Perché, come detto, dal manicomio si poteva uscire, ma senza mai tornare quelli di prima.
La poesia in fondo al tunnel
La chiosa, la voglio dedicare alle ancore di salvataggio che la poetessa dei Navigli, ha avuto nella Terra Santa (come la chiamava lei). Prima di tutto l’appoggio della psicoterapia, senza la quale, sostiene la Merini, non sarebbe mai uscita. In secondo luogo i legami, anche di amore, creati in luogo dove si faceva di tutto per far si che i pazienti stessero lontani da qualsivoglia sentimento, perché i sentimenti se li potevano permettere i sani e non i malati. E poi ovviamente la poesia, che ha sempre salvaguardato l’anima della Merini dalle profonde sofferenze e ingiustizie che il suo corpo e la sua mente stavano subendo.
“..ho fatto un libro, e vi ho anche cacciato dentro la poesia, perché i nostri aguzzini vedano che in manicomio è ben difficile uccidere lo spirito iniziale, lo spirito dell’infanzia, che non è, né potrà mai essere corrotto da alcuno”.
Di seguito lascio il link di Amazon dove è possibile acquistare questa bellissima opera di Alda Merini.
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